Oggi Facebook mi ricorda che 11 anni fa, una signora in un bar, seduta accanto a me, diceva: “Oggi ho dei dolori sconosciuti, non sono miei. Non li conosco“.
E io? Conosco i miei dolori ? E quelli dei miei pazienti?
Ogni mattina ci incontriamo più stanchi e avviliti dagli accadimenti.
Ci chiediamo reciprocamente “Tu oggi come stai?” riconoscendoci entrambi bisognosi di cura e capaci di sviluppare quella “giusta vicinanza” che non ti insegnano all’ Università (anzi, c’è chi parla ancora di “giusta distanza” nelle professioni di cura).
E non è questione di Emozioni che esondando, quelle si esauriscono presto. Ha ragione Giada Lonati che nel suo interessante testo “Prendersi Cura”, dove dice che più che una Empatia Emozionale, servirebbe una Empatia Cognitiva che utilizzi la Compassione come capacità di riconoscere l’Altro per ciò che mi accomuna a lui, indipendentemente dal ruolo.
Sempre più spesso vedo il/la Paziente che mi guarda preoccupato/a, per come mi vede, persino attraverso lo schermo di un PC.
Per le mie occhiaie che rivelano gravi disturbi del sonno e stress accumulato da mesi, per il cappello e la sciarpa a riparami da un freddo che fuori non c’è davvero.
La seduta è una occasione per scoprire che esiste una forte interdipendenza tra noi. E che lo sguardo di cura non è solo il mio.
Quando accade mi commuovo perché intuisco che stiamo accorciando le distanze e questo è fondamentale visto che vogliamo essere Alleati/e nella riconquista del nostro Sè più autentico che è in pericolo, per ragioni diverse.
Siamo in pericolo, e nessuno si salva da solo.