Oggi è uno di quei giorni tosti, quelli in cui rischi lo scoramento, e alla sera ti guardi allo specchio in ascensore, con la sensazione di essere uscita da un frullatore e dici “boh…che ho fatto?”
Uno di quei giorni in cui sali e scendi le scale, parli con tizio e con caio, visiti, spieghi, ascolti, fai pat pat sulle spalle di mille persone, scrivi, fotocopi, fai piani, proposte, colloqui, prendi appuntamenti, telefoni, insisti, rinunci, riprovi, rispieghi, impari, sbagli, correggi, ritorni su a verificare, sbuffi, con la strisciante sensazione che quel che cerchi di fare venga spesso e sistematicamente smontato da manine piccolissime che sbucano un po’ da tutte le parti, a volte anche dal tuo animo scoraggiato.
Poi, in serata, attraversi la corsia di un supermaket pieni di luci e colori e pensi a quei saloni abitati da anime in pena e ti si ripresenta la domanda “come trasformare tutta la sofferenza che vedi o anche solo una minima quota di essa?”
I tagli di bilancio, i messaggi schizofrenici del sistema (fate il meglio, raggiungete l’eccellenza ma sappiate che non vi daremo piu’ niente di quel che vi serve per garantire il minimo dell’assistenza), le inevitabili sommosse delle varie categorie professionali,il nichilismo crescente, la delega ormai fatta procedura, il lassismo per stanchezza e disperazione, rendono il presente tragicamente ingombrante. La sensazione del franare del sistema è inquietante e – come altri – vorrei fuggirla come la peste perchè paralizzante.
Io sono una operatrice della riabilitazione, intesa non solo come semplice recupero di abilità (come diceva Carlo Pastore, la definizione non è sbagliata ma è sicuramente angusta perchè applicabile ad un numero troppo esiguo di casi), e in quanto tale dovrei essere attivatrice – insieme ad altri – di un intervento finalizzato alla trasformazione del “destino” della persona che necessita di aiuto. Io DEVO essere portatrice di una incentrante propensione all’mutamento se non voglio impoverire il mio intervento riducendolo ad una mera operazione tecnica ma evitare l’ impoverimento, in questi tempi, non è impresa facile.
Tutto ci destabilizza. Ci indebolisce. O almeno, questa è la sensazione.
Ma qualcosa di ben peggiore ha fatto irruzione nella vita di quelle persone su cui mi interrogo (gli Altri da me, i fragili), cambiando il loro mondo ben più drammaticamente di come adesso la difficile congiuntura storico-economica sta cambiando le nostre vite, la mia – ad esempio.
Noi siamo i “temporaneamente sani” che si muovono intorno a coloro cui la malattia – nel bel mezzo di una vita come è adesso la nostra – ha “destabilizzato l’anima, colpendola nella stabilità del suo rapporto con il proprio corpo e con le cose (…), turbandola nel suo sostanziale equilibrio, nella stabilità del suo essere” (C. Pastore), e possiamo scegliere se avvertire affettivamente questa loro destabilizzazione – incontrando le singolarità sofferenti – recuperandone la soggettività, o sbattercene in virtù delle mille legittime ragioni che certamente abbiamo anche noi.
Eppero’…c’è quella storia dell’etica della responsabilità, secondo Levinas…”Dire eccomi, rispondendo di tutti e di tutto. Fare qualcosa per qualcuno”
La responsabilità è responsabilità per altri, il legame con altri si stringe solo con la responsabilità, sia che questa sia accettata o rifiutata perché io sono responsabile di altri senza aspettare il contrario, perché l’inverso riguarda loro.
La responsabilità mi incombe e non la posso rifiutare, preme su di me attraverso lo sguardo altrui
“Nessuno, in questo momento può dire: ho fatto tutto il mio dovere “
In cerca di Responsabilità (tra i cespi di insalata)
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