La nostra attuale Università forma in tutto il mondo una proporzione troppo grande di specialisti di discipline predeterminate, dunque artificialmente circoscritte, mentre una gran parte delle attività sociali, come lo stesso sviluppo della scienza, richiede uomini [n.d.a. e donne] capaci di un angolo visuale molto più largo e nello stesso tempo di una messa a fuoco in profondità dei problemi, e richiede nuovi progressi che superino i confini storici delle discipline.
A scanso di equivoci queste belle cose le ha dette Lichnerowicz (citato da Morin ne “La testa ben fatta” la cui lettura consiglio a chi si occupa di educazione).
Ma a parte il fatto che sembra già una utopia avere “specialisti di discipline predeterminate” in un paese in cui gli incarichi di insegnamento sono spesso attribuiti senza alcuna coerenza rispetto al contenuto del corso (sarebbe curioso verificare i curricula dei docenti dei vari corsi di Laurea in Logopedia sparsi per l’Italia), resta comunque da verificare se l’angolo visuale piu’ largo sia compatibile con un sistema medico quale quello italiano.
Sono d’accordo con Andrea Adrusini quando dice che “il vero male è la disorganizzazione politica e sociale” ma sopratutto la mentalità. Secondo Adrusini “In Italia esiste la sanità, ma non esiste un sistema sanitario, per il semplice fatto che la parola sistema non fa parte del nostro vocabolario nazionale.“Sistema” significa letteralmente: “connessione di elementi in un tutto organico”, oppure“insieme di elementi in stretto rapporto fra loro, destinati a determinati scopi e finalità”. […] In ogni caso la parola “sistema” indica un’attività razionalmente preposta all’organizzazione di qualche cosa che sia diretto a un fine, e nel caso della sanità questo fine è la salute pubblica”.
Pensiamo alla persona divenuta afasica. Il suo percorso inizia in Ospedale dove incontrerà (o scontrerà?) persone presumibilmente formate a introdurlo alla nuova vita cui è destinata. Forte di alcune prime suggestioni, verrà supportata nella fase di reinserimento centrata sulla autonomia e dunque fortemente correlata ad un discorso professionale. Dall’Ospedale dunque alla Comunità intesa come “spazio abitabile”.
Fantascienza, vero? Dove è nascosto in questo caso, il Sistema?
Ma prima ancora di parlare di spazi (ahimè) solo virtuali, quali sono queste figure che dovrebbero dare inizio al processo? I Medici? I Neurologi? O forse i Foniatri? O ancora, i (le) Logopedisti (e)?
Questi ultimi, leggo da documenti relativi al Corso di Laurea in Logopedia dell’Università di Genova ma presumo trasversali all’intero paese, dovrebbero uscire dalle nostre scuole avendo affinato diverse competenze fra le quali estrapolo le piu’ interessanti (opportune quanto inverosimili e disattese):
– Valutare le possibili ripercussioni sulla comunicazione e sul linguaggio connesse al decorso delle principali malattie, al trattamento, alle abitudini di vita, alle reazioni alla malattia, all’ospedalizzazione, agli interventi assistenziali; ·
– Dimostrare capacità di stabilire e mantenere relazioni di aiuto con la persona, con la sua famiglia, il contesto sociale applicando i fondamenti delle dinamiche relazionali;
– Riconoscere le principali reazioni della persona alla malattia, alla sofferenza e all’ospedalizzazione rispettando le differenze comportamentali legate alla cultura di appartenenza;
Ora, parliamoci chiaro, io credo che siano migliaia le storie che ciascuno di noi potrebbe raccontare circa il proprio “vissuto” nella relazione riabilitativa ben lontano dal contatto con questo tipo di competenza, ma tutte queste storie presumibilmente condividono un assunto di base:
LA COMPLESSITA’ CHE E’ INSITA NELLA ESPERIENZA DELLA AFASIA COME IN QUALSIASI ESPERIENZA DI CRISI [intesa come momento che separa una maniera di essere] NON PUO’ ESSERE AFFRONTATA CON UN PENSIERO DISGIUNTIVO E RIDUTTIVO QUALE QUELLO ALLA BASE DELLA DIDATTICA DELLA MAGGIOR PARTE DELLE UNIVERSITA’ ITALIANE (nelle migliori delle quali al massimo si insegnano strategie mirate ad agire sul linguaggio delle persone dimenticando che l’importanza del linguaggio è nei suoi poteri e non nelle sue leggi di funzionamento!).
Ne’ bastano gesti sentimentali, di falsa religiosità, di carattere individuale.
Occorre un pensiero del complexus (ciò che è tessuto insieme) ma soprattutto occorre che le persone con afasia non siano più nomi astratti ma divengano uomini e donne concreti, che spesso subiscono ingiustizia e soverchiamento in Opedale, in casa, sul lavoro e anche nelle ASSOCIAZIONI.
Gli è rubata la parola (non solo dalla afasia), il loro ruolo è cancellato, le porte si chiudono, nulla si propone loro come via di uscita davvero rispettosa della assoluta specificità di quella vita umana, a parte qualche percorso apparentemente alternativo in alcune realtà, nelle quali la persona è invitata a dilettarsi con musica e pennelli mentre probabilmente sta lottando con la grande angoscia di non riuscire a rientrare nel mondo del lavoro (non parlo di arte terapia ma di gruppi ricreativi anche perché se parlassi di arteterapia dovrei aprire il capitolo sul consenso che immagino alle persone non venga chiesto in modo corretto …le persone che entrano in un gruppo di arteterapia sanno di cosa si tratti esattamente? Ne condividono l’approccio e la metodologia? Mi riferisco ai percorsi di arteterapia vera in cui il terapeuta non ha il ruolo di fornire sostegno emotivo o stimoli creativi ma di rendere condivisibili, riconoscibili, parti di desideri, traumi, aspirazioni, inquietudini e problemi della persona che altrimenti perturbano sopiti e incompresi. Io, personalmente, vorrei sapere se partecipo ad un percorso di psicoterapia …altrimenti è un gruppo ricreativo e allora siamo alle solite soluzioni pre-confezionate stile “cestini di vimini” solo piu’ eleganti perche’ mediate da un linguaggio artistico).
Ma il semplice riconoscimento (ad es. con il Progetto Autobiografia o con questo blog) di una realtà di oppressione che la persona afasica subisce nel nostro sistema, non produce una sua trasformazione.
Ne’ è utile una realtà immaginaria in cui qualche cane sciolto urla la propria indignazione fino a sgolarsi o ammalarsi lui/lei stesso/a.
Come sostiene Freire ci vuole una “inserzione critica” nella realtà.
E quindi? Mo’ che famo?