E’ FONDAMENTALE che anche durante la fase acuta il/la paziente colpito/a da ictus sia circondato/a da operatori che conoscono bene i disturbi di linguaggio e comunicazione da cui è affetto/a e che sappiano almeno in linea generale come gestire il rapporto con lui/lei senza perdere di qualità nella loro prassi clinica e cosa consigliare ai parenti che pure nelle primissime fasi non sembrano ancora preoccupatissimi del problema (ma piuttosto della sopravvivenza del loro caro).
Occorre conoscere l’esatta dimensione del problema per piu’ motivi, non solo di mero interesse culturale e non solo per evitare di essere imprecisi fin dall’inizio sulla identificazione di una semeiotica che si presenta ai nostri occhi abbastanza evidente ma sulla cui natura riteniamo di non doverci porre troppe domande (non sarebbe corretto conoscere i fattori prognostici relativi alla afasia per indirizzare piu’ o meno una famiglia verso una risorsa riabilitativa piuttosto che verso altri tipi di supporto?)
L’ospedale è un luogo altamente inospitale per chi presenta problemi di linguaggio, lo è gia’ di per se’ per qualunque paziente (dolore, deprivazione di sonno, ansia; limitata abilità di esplorare lo spazio circostante; mancata indipendenza, rumori di fondo, mancanza di privacy, obbligo a comunicare con sconosciuti) ma lo è in particolare per chi non puo’ esprimersi.
Mi capita spesso di ricordare le parole di un paziente che raccontava, in America, di come durante le prime fasi di ricovero in seguito a un ictus “…cercasse di attirare l’attenzione degli infermieri tirando degli oggetti verso il loro ufficio non essendo in grado di chiamarli e questi volevano sedarlo pensando che fosse in uno stato di agitazione patologico “