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Le Rsa e le ragioni per sopravvivere

Posted on 8 Febbraio 20228 Febbraio 2022 by wp_114087

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Vittorio Crosetti pubblica sulla Repubblica del 4.2.2002, un articolo su un tema che dovremmo affrontare tutti con coraggio, non nascondendo la testa sotto la sabbia. Per chi vive questa esperienza e per noi stessi, temporaneamente sani.

Testo dell’articolo:

Nell’intervista rilasciata su queste pagine a Marco Lignana l’illustre geriatra Ernesto Palummeri, richiamato in servizio nell’emergenza Covid, ha sottolineato gli effetti negativi che sugli anziani ricoverati nelle RSA hanno l’impossibilità o l’accentuata scarsità delle visite dei familiari. Per i vecchi delle Case di riposo l’incontro con i parenti è essenziale come una medicina. Non solo giovano loro i propri congiunti e amici, ma anche quelli che vengono a trovare gli altri degenti, portando comunque dentro un po’ di novità, di interesse, di movimento.

Per chi è arrivato a un’età avanzata e in condizioni di non autosufficienza, le ragioni di vita si riducono e spesso sono fornite solo dagli altri, da quelli che si conoscono e anche da quelli che non si conoscono. Se a chi è ricoverato per sempre viene meno il contatto col mondo di fuori, la sua esistenza si riduce a mera, apatica sopravvivenza. C’è da restare sgomenti a pensare ai vecchi che da due anni non sono quasi più in contatto con la varia realtà esterna, con gli altri; la loro esistenza rischia di aver perso anche il poco senso residuo. Chi si scandalizza del dibattito in corso sull’eutanasia come modo per sottrarsi o chiedere di essere sottratti alla pena di una malattia insopportabile o alla mortificazione di una vecchiaia devastante, dovrebbe pensare a questi vecchi che la pandemia ha relegato ancora di più nell’abbandono psicologico e cognitivo, nonostante le cure prodigate dal personale di assistenza.

Certo, se resta un barlume di lucidità, di interesse per il mondo; se si hanno speranze religiose, anche il “povero animale umano/ abbattuto e sfatto sopra un letto di cronicario” può avvampare ancora di un “quasi ribaldo amore” per la vita, come scriveva Mario Luzi a conforto del povero Carlo Betocchi, ricoverato e disperato a Bordighera. Se si ha una fede si può forse anche accettare di finire la propria esistenza in una specie di lindo frigorifero, in cui si è conservati fino a quando il corpo non va definitivamente a male.

Ma, a parte che oggi la consolazione di una fede sincera è un bene rimasto a pochi, pensieri nobili e coraggiosi possono venire solo fino a quando resta un minimo di salute.
Poi non si pensa ad altro che al proprio male, alla propria infelicità. E allora? Se manca quel rifornimento di vita che gli altri (i figli, gli amici, i nipoti) portano, sia pure per pochi minuti, al capezzale di un lungodegente, briciole di senso e curiosità che restano per un po’ accanto al letto del malato anche dopo che i visitatori sono andati via, la domanda inevitabile è: perché continuare? Ha ancora senso vivere così? Anzi: è vivere questo?
Siamo una società contraddittoria. Noi vecchi siamo maggioranza.

Dilapidiamo ingenti risorse nostre e dei figli per resistere il più a lungo possibile: medicine, visite mediche, protesi… Quelli di noi che stanno ancora discretamente bene vivono spesso con ansia e avidità imbarazzanti i loro tardi anni e sarebbero pronti, come pare abbia fatto di recente qualche quasi novantenne, persino a desiderare o almeno a prendere in considerazione la prospettiva di sette anni di presidenza della repubblica, senza dire no grazie, datela a uno più giovane. A un certo punto, però, nonostante i marchingegni terapeutici, la vecchiaia dilaga e con essa la fine dell’autosufficienza, la dipendenza dagli altri o il ricovero in una struttura. La vita, cercata e quasi addentata sino a poco prima con patetica e narcisistica caparbietà, si perde nelle nebbie del cervello, si identifica solo con le misere necessità di un corpo che si sfascia. Allora il vecchio è espulso dal mondo, chiuso, dimenticato tra badanti distratte e cronicari asettici.
Unico conforto, pietoso ma umanissimo alibi per non cedere alla disperazione, è la partecipazione alla vita degli altri, la trepidazione per quella dei congiunti, la curiosità per quella degli estranei. Ma se di questa vita altrui non giungono più neppure la notizia né gli amati gesti familiari che la riferiscono; se una traccia, il sapore o il colore di vite altrui non entrano più nella casa o nel ricovero, allora la tragica domanda di cui sopra, se per il vecchio vale ancora la pena vivere, non è eludibile e non consola sapere che spesso lui è ormai così stordito dagli anni e dalla malattia da non potersela neanche fare.

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